
di Fabrizio Frignani, Fotografo e Public historian
Il progetto Snai fa da guida a politiche innovative per provocare uno sviluppo locale che nasce da nuovi modelli partecipati di gestione del governo del territorio. Tra gli obiettivi principali ci sono quelli di fermare il declino demografico e l’abbandono del territorio, che negli anni hanno interessato profondamente questa affascinante montagna. Per troppo tempo queste sono state considerate Aree Marginali, in realtà sono luoghi iconografici del distacco e del conseguente spaesamento; al tempo stesso oggi rappresentano romanticamente il volto di un paesaggio del tempo passato, in cui le rovine, componenti fondamentali di una scenografia unica che spesso li rende esclusivi, riportano alla memoria una vita difficile, fatta di sacrifici ed anche ferite profonde con le quali la storia in generale, quella delle singole persone e delle comunità, non ha ancora fatto i conti. Luoghi dove si ritorna ogni tanto, nei fine settimana oppure durante l’estate giusto per fare rientrare la calda aria del sole nelle piccole stanze, dove la polvere in sospensione quando attraversa un raggio di luce sembra danzare. Per poche ore o giorni quelle porzioni di edifici addossati uno all’altro, le aie, i fienili, antiche proprietà, riprendono vita e ci riconnettono con le nostre storie private. Spesso questi agglomerati di pietre della memoria, in invisibili all’occhio umano e adagiati delicatamente ai versanti delle colline sono diventati irraggiungibili, perché privati dalle strade fagocitate a loro volta dalla rigogliosa e disordinata vegetazione spontanea. Boschi, prati, edifici, strade vicinali, fontane, lavatoi, segni della presenza umana, diventano testimonianza della continua evoluzione del paesaggio che modificato dall’uomo e poi abbandonato, rioccupato e successivamente riabbandonato, ritorna anche per un breve periodo ad un suo equilibrio naturale. Per taluni questo è sintomo di degrado, per altri è la riconquista del selvaggio, da parte della natura sul costruito dell’uomo. In ogni caso, ci troviamo di fronte alla rappresentazione di un paesaggio in evoluzione, che ha visto, è vedrà sempre nel tempo l’uomo abitarlo adattandolo alle proprie esigenze, necessariamente sempre più sostenibili.
Il paesaggio è un archivio molto complesso, dove, ogni segno (documento) è in relazione con gli altri segni (documenti); per potervi leggere le storie ed interpretare i comportamenti degli umani, che hanno abitato quei luoghi e bisogna imparare a metterli in ordine. Un riordino che, svolto con metodo scientifico, attraverso l’educazione dell’imparare a leggere i segni, le trame e le connessioni che li mettono in relazione, ci permette di capire che i nostri avi, anche quelli più vicini al tempo presente, non hanno solo lasciato lezioni/esempi di degrado o sfruttamento eccessivo di un territorio. Anzi, sapendoli individuare possiamo scoprire sia cosa non dobbiamo più fare, ma anche ciò che costruito dall’uomo è compatibile o contribuisce in modo sostanzialmente positivo al delicato equilibrio che intercorre tra paesaggio costruito dall’uomo e natura. In queste aree marginali resiste, non solo, una tenace presenza umana che le rende vive, ma è resiliente un paesaggio che da sempre ci ospita e fa da sfondo alla nostra quotidianità. Il quale attraverso questo progetto di grande respiro, quello delle Aree interne, e ad un documento d’indirizzo ai più sconosciuto, che è la Convenzione europea del paesaggio, può diventare traino di un nuovo modello di sviluppo, economico e sociale, ma soprattutto educativo, che abbiamo pensato di chiamare semplicemente “modello appennino”. Un paesaggio che non ci deve vedere solamente attori consumatori, ma anche attori coscienti e consapevoli. Partendo dal presupposto che il paesaggio è il valore aggiunto di questi territori, dove non necessariamente per renderli interessanti bisogna proporre modelli sviluppati per-in altri luoghi, specialmente se non condivisi con gli attori locali.
Il cambio di sguardo che stiamo proponendo sul paesaggio delle aree interne è proprio questo, “dare valore a quello che c’è”, attribuendo ulteriore continuità all’importante lavoro svolto durante la prima fase della Strategia caratterizzata dall’azione denominata “montagna del latte”. Con essa non ci si è soffermati solamente all’analisi della filiera del formaggio, che nella sua specificità rurale è oggi un’attività produttiva di grande valore ecosistemico, economico e tecnologico, ma soprattutto si è cercato di individuare un paesaggio denominato “del Parmigiano Reggiano”, che deve contribuire a valorizzare quanto nella storia passata e presente, sono contemporaneamente valore, identità dei luoghi e delle comunità nel territorio.
Un paesaggio che è stato costruito nel tempo dall’uomo, “con coscienza”, come scriveva Emilio Sereni in “Storia del Paesaggio Agrario Italiano”.
Allora l’agricoltura era altra cosa, i paesaggi rurali erano rappresentazione di povertà, i contadini prelevavano dai campi ciò che era necessario per sopravvivere. Altri paesaggi rispetto a quelli di oggi, dove lo sviluppo economico della filiera del Parmigiano Reggiano ha creato un forte scollamento con il passato. Oggi le aziende agricole sono sempre più specializzate, economicamente più selettive, più grandi e per mantenersi in vita hanno necessità di sostanziosi investimenti economici. La tipologia del prodotto, il Parmigiano Reggiano, e, quanto definito nel disciplinare per produrlo, hanno fatto si che di fronte ad un grande cambiamento paesaggistico nella parte strutturale architettonica delle aziende agricole, in campagna abbiamo potuto assistere ad un fenomeno di “tutela conservativa” della parte coltivata. Quel paesaggio di sguardo che il nostro occhio percepisce immediatamente, non risulta ad una prima osservazione superficiale molto diverso da quello di 50-60 anni fa. La trama e l’ordito di questa grande coperta che avvolge i versanti delle colline, con i campi coltivati che si alternano a boschi, siepi, corsi d’acqua, calanchi e un reticolo infinito di carraie, anche se sono oggi “regolati”, disegnati, da un disciplinare, evidenziano ancora le proprie radici nella cultura popolare che li ha generati. Anche se i campi non hanno più le forme precise e geometriche di un tempo, allora dettate dai filari delle piantate, e gli agricoltori con le grandi macchine operatrici altamente tecnologiche non sfalciano più a mano quelle porzioni di terra, confine tra coltivato e bosco, su alcuni appezzamenti lasciano volontariamente i segni residuali di qualche acero capitozzato che sorregge ancora antichi tralci di vite, o alberi solitari in mezzo ai campi, a testimonianza di un forte radicamento a credenze ancestrali non ancora del tutto dissolto.
Per dare valore, per andare oltre, per cambiare lo sguardo rispetto ai tradizionali programmi di sviluppo proposti fino ad oggi, abbiamo iniziato attraverso le scuole di ogni ordine e grado un importante attività di educazione al paesaggio. Ciò non significa che chi non frequenta più la scuola è esentato dall’apprendere questo processo di cambiamento. Tutti gli altri attori vogliamo che siano proprio i giovani a raggiungerli, essendo questi ancora privi dei tanti, troppi filtri ideologici. Le nuove generazioni rappresentano quei cittadini attivi, che riconoscendo il valore del loro paesaggio, lo sapranno tutelare, definendone anche i nuovi parametri di sviluppo sostenibile. Per poterlo così tramandare nelle migliori condizioni possibili alle generazioni future.
Educare al paesaggio significa entrare in relazione con il territorio nel quale viviamo, quello che apparentemente conosciamo meglio, anche se solo lo strato superficiale è quello a noi familiare. Imparando a leggerlo possiamo comprendere ciò che cerchiamo di conoscere, ma che in realtà presenta molti aspetti poco o per niente noti. Non dobbiamo guardare al paesaggio solo per la sua salvaguardia o per migliorarne la qualità, ma soprattutto per favorire la crescita globale delle persone.
Quali semplici azioni e sguardi dobbiamo attuare per imparare a leggerlo?
E’ sufficiente essere curiosi, porsi delle domande, cercando le risposte nel nel paesaggio stesso, nei segni in esso contenuti, vivendolo come esperienza. La lettura dei segni del passato aiuta tutti noi a situarsi nel tempo e a collegarsi ad uno spazio del quale a volte viviamo solo piccole parti. Questa idea di didattica del paesaggio ci permetterà di riallacciare legami con le generazioni precedenti, recuperando, o forse, ridando vita ad un antico senso di identità dei luoghi.