
Vi proponiamo, di seguito, un interessante articolo scritto dal Prof. R.Baldini, attualmente in carico presso l’IIS Cattaneo Dall’Aglio come docente di filosofia, uscito sulla rivista simbiosi magazine
Camminare nei boschi, sedersi sulla riva di un fiume. Posare lo sguardo sulla maestosità delle montagne, contemplare il tramonto sul mare. Esperienze difficili da spiegare, estetiche eppure profonde. Le nostre parole rischiano di umanizzare e di far perdere il loro valore reale eppure, non possiamo farne a meno. Chi le ha sperimentate almeno una volta sa quale sia la sensazione di benessere, quasi commovente, che esse portano. E se vi rinunciamo per troppo tempo ne sentiamo la mancanza. Questa sensazione non è razionale, mette in campo la nostra sfera emotiva e sensoriale più profonda. Gioia e vitalità totali e per questo inspiegabili.
Siamo esseri bizzarri, noi umani. Il filosofo greco Parmenide ci definiva “gente a due teste”, che vive in uno stato costante di paradosso e di separazione dalla nostra stessa visione del mondo. Da un lato la nostra vita è caratterizzata dalla modificazione dell’ambiente circostante, lo pieghiamo al nostro volere, perdendo il contatto con le problematiche legate a questo sconsiderato modo di vivere. Dall’altro siamo attratti dai luoghi non antropizzati, ne sentiamo il bisogno, ne cogliamo la bellezza.
Il senso di separazione che proviamo quando non sentiamo il contatto con la natura, è fonte di una vera sofferenza che genera una serie di problematiche individuali, sociali, ecologiche ed etiche.
Il presunto dominio dell’uomo sul suo ambiente – per quanto possa dargli un appagante senso di controllo – lo lascia perduto in balia di un profondo nichilismo esistenziale, una perdita di senso che forse è il più ingombrante “ospite inquietante” dei nostri tempi, per usare le parole di Umberto Galimberti; l’individuo si chiude in se stesso, sente il mondo intorno a sé come una fonte di oppressione, una gabbia soffocante, ostile, perde vitalità e, infine, anche la sua stessa salute fisica.
Una piena comprensione della mente umana richiede una prospettiva integrata: la mente non solo deve muovere da un “cogito” non fisico al regno dei tessuti biologici, ma deve anche essere correlata con un organismo intero, in possesso di un cervello e di un corpo integrati e in piena interazione con un ambiente fisico e sociale. (Damasio A., L’errore di Cartesio, 1994)
La presa di coscienza di questo punto ci chiama ad una profonda riflessione sul nostro stile di vita e sul nostro rapporto con il mondo. Bisogna tornare ad un pensiero che sia accompagnato da una azione concreta. Non dobbiamo più soffermarci sul principio cartesiano del “Cogito ergo sum” (Penso dunque sono) di cui è figlia la nostra epoca.
Occorre un radicale cambiamento, una trasformazione autentica del proprio stile di vita e del proprio rapporto con il mondo. Tornare all’esperienza estetica dell’ambiente che ci circonda.
L’immersione nella foresta come pratica terapeutica
Con l’espressione “esperienza estetica” si intende il portare attenzione alle proprie percezioni sensoriali, immergendosi in esse. Figlia spesso trascurata della riflessione filosofica, essa richiama l’attenzione su come il mondo intorno a noi agisce su di noi. Ci ricorda che non siamo esseri dotati di una separazione tra corpo e spirito, ma “corpispirito”, una totalità di molteplici livelli in costante relazione.
In particolare, l’esperienza del contatto con la vitalità pulsante e potente della Natura, porta un senso di profondo appagamento, tanto da essere sempre stata oggetto di ricerca da coloro che si dedicavano alla cura del proprio “io” interiore e alla ricerca della sapienza. Lo sciamano abbandona il villaggio per addentrarsi nella foresta, Aristotele insegnava ai suoi discepoli passeggiando in un giardino.
Come non citare le splendide parole del poeta e filosofo Thoreau:
Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita, e per vedere se non fossi capace di imparare quanto essa aveva da insegnarmi, e per non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto. Non volevo vivere quella che non era una vita, a meno che non fosse assolutamente necessario. Volevo vivere profondamente, e succhiare tutto il midollo di essa, vivere da gagliardo spartano, tanto da distruggere tutto ciò che non fosse vita, falciare ampio e rasoterra e mettere poi la vita in un angolo, ridotta ai suoi termini più semplici (Walden, 1854).
Kant chiama questa esperienza “sublime”. Essa smaschera da un lato la piccolezza di tutte le nostre costruzioni di fronte alla potenza della Natura, dall’altro proietta in una dimensione di catarsi, piena di significato. Ci rigenera e ci stupisce.
Una serie di studi, a partire dal 2010, sottolinea le potenzialità del contatto con l’ambiente non antropizzato, a partire da una pratica terapeutica nata in Giappone negli anni Ottanta e nota come Shinrin Yoku, cioè “bagno o immersione nella foresta”. Lo shinrin yoku viene definito come un insieme di tecniche volte a prevenire l’insorgere di sintomatologie mediche attraverso l’esposizione a stimoli naturali, in grado di rilassare l’individuo e potenziare il suo sistema immunitario (Song, C.; Ikei, H.; Miyazaki, Y. 2016). Diverse ricerche hanno evidenziato come la pratica dell’immersione in un ambiente naturale abbiano effetti straordinariamente positivi sul sistema immunitario (Bowler, D.E.,; Buyung-Ali, L.M.; Knight, T.M.; Pullin, A.S. 2010), cardiovascolare (Chun, M.H.; Chang, M.C.; Lee, S. 2017) e respiratorio (Han, J.; Choi, H.; Jeon, Y.; Yoon, C.; Woo, J.; Kim, W. 2016) e hanno anche notato una significativa riduzione di ansia, depressione e difficoltà di concentrazione.
Al di là dell’effetto, per così dire, “preventivo” e “medico” dello Shinrin Yoku, ritrovarci a contatto con l’ambiente naturale genera in noi sensazioni – che possiamo immediatamente percepire – di pienezza e benessere, un senso di connesione che non possiamo definire in altro modo se non come gioia. In quei momenti sentiamo Gaia, il sistema-Terra, come dotato di valore intrinseco e ci percepiamo parte di essa. Questa esperienza, puramente estetica, ci apre a un senso di riconoscenza e amore.
La pratica in natura come espressione di eros
La nostra visione separata di vedere le cose, potrebbe trasformare questa esperienza in un “protocollo”, chiuderla in un sistema e considerarla uno strumento per ottenere un fine. Così facendo, però, non faremmo altro che alimentare ulteriormente il senso di alienazione che proviamo nei confronti di noi stessi e del mondo. Immergerci in un ambiente naturale non è una “tecnica”. Non ha a che fare con ciò che facciamo, ma al contrario con ciò che sentiamo. Non è fredda analisi della ragione ma, piuttosto, un modo di essere.
Dal punto di vista filosofico usciamo dal regno del logos per vivere una profonda esperienza di eros. Perchè è di eros, amore, che abbiamo bisogno. La vera sapienza, seppur guidata dalla ragione, emerge dalla sfera del sentimento e proprio l’amore, più di ogni altra pulsione, “fa spuntare le ali” alla nostra anima, come scrisse Platone.
La radice della sofferenza è la separazione. Ci percepiamo distaccati dall’esistenza e questo ci fa sentire isolati in balia di un cosmo freddo e ostile. Per usare la bellissima espressione di Alan Watts: siamo ego incapsulati nella pelle, costretti ad una costante lotta per sopravvivere. Lotta che, inevitabilmente, perderemo, trascinati da questo conflitto esistenziale, perchè inevitabilmente arriverà il momento in cui le forze ci abbandonano. Ma se la separazione è la fonte del dolore, la connessione è la cura. Immergersi nei boschi o, in generale, nello spazio naturale ci riporta a all’esperienza originaria del Tutto, a sentirci parte del flusso vitale dell’esistenza. E questo cura il nostro essere.
Praticare con consapevolezza
Naturalmente, lo shinrin yoku e tutte le altre forme di pratica in natura non possono essere intese semplicemente come un “trovarsi all’aperto”. Camminare distrattamente nel bosco o sedere sulla riva del mare mentre si guarda il telefono – per quanto consentano di godere dell’aria pulita e della luce del Sole – non sono attività capaci di agire sufficientemente in profondità dentro di noi. Per trarre davvero beneficio dal contatto col mondo occorre esserci. È importante vivere l’esperienza appieno, portando attenzione ai sensi, esterni ed interni. L’esperienza estetica richiede presenza. Solitamente non ci troviamo in uno stato di presenza. Siamo sempre spostati o nel rimuginio di cose passate o nella preoccupazione per cose future. Pensiamo a ciò che non è intorno a noi. Per quanto questa facoltà ci consenta di pianificare la nostra vita, ci impedisce solitamente di godere delle sensazioni del momento e accresce la sofferenza. L’ambiente naturale ci invita alla presenza, con la bellezza dei suoi colori, i suoi profumi e i suoi suoni. Non si tratta quindi di uno sforzo, di qualcosa che “è da fare” secondo certe tecniche. Si tratta, al contrario, di interrompere l’attività, di lasciarsi andare e “lasciarsi sedurre” dal mondo circostante, godendo delle sensazioni che ci trasmette. In questo senso, l’esperienza di contatto con la Natura è potentemente dionisiaca; Giorgio Colli scriveva:
Perché da Dioniso faccio cominciare il discorso sulla sapienza? Con Dioniso, invero, la vita appare come sapienza, pur restando vita fremente: ecco l’arcano… Dioniso nasce da un’occhiata su tutta la vita: come si può guardare assieme tutta la vita? Questa è la tracotanza del conoscere: se si vive si è dentro a una certa vita, ma voler essere dentro a tutta la vita insieme, ecco, questo suscita Dioniso, come dio onde sorge la sapienza. (La sapienza greca, 1977)
Esperienza che si ricollega ad una forma di meditazione, la pratica in Natura è forse anzi ciò da cui la meditazione si origina. In effetti, la meditazione altro non è che un ritornare al centro di sé ed essere consapevoli e presenti al corpo, ai pensieri, alle sensazioni e alle emozioni. La pratica in Natura agevola questo particolare stato di coscienza, grazie alla quantità di stimoli che ci offre. Essere in Natura ci riporta a quello stato essenziale e originario di esseri nel presente. Ci stimola e risveglia attraverso i sensi. È una sorta di “sforzo senza sforzo”. In pratica non si tratta di attuare una tecnica, ma di accettare un invito. Si tratta di lasciarsi andare all’esperienza. In questo senso è senza sforzo ma, allo stesso tempo, può essere estremamente complesso per chi ha difficoltà ad abbandonare il controllo della ragione per restare nel flusso delle sensazioni. Occorre lasciar andare il concetto per restare nel senso.
Valore etico ed ecologico del contatto con la Natura
La pratica in Natura va al di là di tutto ciò. Credo sia sbagliato fermarsi a vedere il contatto con l’ambiente come una sorta di “medicina alternativa”, riducendolo ad una funzione puramente strumentale.
L’esistenza è infatti un tutto da guardare in una prospettiva sistemica e complessa, un “macrocosmo” che influenza il “microcosmo” e da esso è influenzato, per cui le dinamiche che agiscono nella nostra relazione con l’ambiente si rispecchiano in ciò che si agita dentro di noi. Il mondo esterno e il mondo interno sono un tutt’uno, come afferma la sapienza antica, espressa anche nelle parole della “Tavola di Smeraldo”:
Ciò che è in basso è come ciò che è in alto e come ciò che è in alto è come ciò che è in basso.
La consapevolezza di questa intrinseca unità è il balsamo che il nostro animo cerca, come il ricordo di una verità che conoscevamo e col tempo abbiamo dimenticato.
La pratica in Natura insegna a vivere con empatia l’ambiente circostante, a sentirsene parte. Crea un senso di comunanza con la moltitudine di forme vitali che popolano il nostro ecosistema, quel senso di comunanza che, per molti motivi, si è andato via via perdendo nel corso dei secoli, sino ad arrivare alla nostra era.
Come afferma la Deep Ecology, la radice della crisi ecologica non è solo un problema di azioni dannose verso l’ambiente. È un problema di paradigma, di sguardo sul mondo. Finchè ci percepiamo come enti separati non possiamo che sviluppare un atteggiamento predatorio e strumentale nei confronti del mondo.
Praticare in Natura, vivere il contatto con l’ambiente e assaporare il pieno senso di meraviglia che trasmette non è solamente quindi “terapia” individuale, ma è anche una bellissima forma di attivismo ambientale, un modo per trasformare se stessi nella relazione con il cuore vitale del mondo.
Roberto Baldini
È un filosofo docente di scuola secondaria di secondo grado. È counsellor professionista a indirizzo gestaltico e transpersonale; studia altresì sciamanesimo e misticismo occidentale e orientale. È autore del libro “La strada dai molti canti. Filosofia e sciamanesimo greco”. Insieme a Katia Guidetti gestisce “Il Passo oltre lo Specchio”, un progetto dedicato all’esplorazione di sé e delle proprie relazioni col mondo e con gli altri: ww.passooltrelospecchio.com.