
Alberto Tampieri – professore di Diritto del lavoro, Università di Modena e Reggio Emilia
Sono stato molto lieto di portare i saluti del corso di Dottorato di ricerca in Scienze Giuridiche
dell’Università di Modena e Reggio Emilia al seminario del 14 Novembre, occasione di incontro tra enti locali, università, scuola e altre istituzioni coinvolte nella strategia nazionale delle “Aree interne”.
Il dottorato che coordino è composto da un ampio numero di docenti (oltre 60) ed è attivato in
convenzione tra l’Università di Modena e Reggio Emilia e l’Università di Parma; in esso sono
comprese tutte le principali materie giuridiche, sia dell’area privatistica che di quella pubblicistica.
Rispondendo, nei mesi scorsi, a un bando ministeriale (“FSC – Piano stralcio ricerca e innovazione
2015-2017: Fondo per lo sviluppo e la coesione”) per il finanziamento di borse di dottorato collegate
alla strategia nazionale delle “Aree interne”, abbiamo preparato, in collaborazione con l’Unione montana dei comuni dell’Appennino reggiano, un progetto di ricerca intitolato “Il lavoro agile come strumento di gestione e di flessibilità del lavoro pubblico, nonché di mobilità nelle Aree interne del Paese”.
In effetti, il lavoro agile – o smart working – è uno dei temi del momento; se ne parla molto sia nella
legislazione dell’emergenza Covid-19, sia diffusamente nei vari media.
Si tratta, in termini giuridici, non di una nuova tipologia contrattuale di lavoro, bensì di una particolare
modalità di esecuzione del lavoro subordinato, caratterizzata dallo svolgimento dell’attività in parte
all’interno dei locali del datore di lavoro e in parte all’esterno, “senza una postazione fissa” (art. 18,
comma 1, legge n. 81/2017), e ancora senza “precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro”.
Il lavoratore agile opera, secondo la legge, per “per fasi, cicli e obiettivi” e con il “possibile utilizzo”
di strumenti tecnologici per la prestazione dell’attività lavorativa.
L’art. 18, comma 3 della legge n. 81/2017 estende poi le disposizioni in materia di lavoro agile, “in
quanto compatibili”, ai rapporti di lavoro nelle pubbliche amministrazioni, secondo direttive emanate
“ai sensi dell’art. 14 della legge 7 agosto 2015, n. 124” e cioè la c.d. legge “Madia”.
In particolare, ancor prima dell’approvazione della legge n. 81/2017, era stata emanata la direttiva
del Dipartimento della Funzione Pubblica 1° giugno 2017, n. 3/2017, che disciplina il procedimento
di attivazione del lavoro agile e del telelavoro, del quale si ribadisce la differenza rispetto allo smart
working (sul punto tornerò anche in seguito). La direttiva fissava – in conformità alla stessa legge n.
124/2015, art. 14 – l’obiettivo minimo del 10% in tre anni quale percentuale dei dipendenti pubblici
da adibire alla modalità “agile”.
Con l’introduzione del lavoro agile, il legislatore del 2017 intendeva “favorire l’articolazione
flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato”, ai fini di una sempre più ampia conciliazione
tra tempi di vita e di lavoro. La legislazione emergenziale in materia di contrasto alla pandemia da
Covid-19 ha tuttavia improvvisamente modificato il quadro normativo e in particolare la fisionomia
stessa del lavoro agile: esso è diventato la modalità ordinaria di lavoro nella P.A., e a regime dovrà
coinvolgere una percentuale molto elevata (60%) del personale (art. 263 d.l. n. 34/2020).
Il recente d.p.c.m. 3.11.2020 si spinge fino ad affermare che il lavoro agile nella P.A. deve essere
utilizzato “nella misura massima possibile”.
Anche nel lavoro privato (e nelle libere professioni) il lavoro agile è incentivato; si prescinde da
alcune prescrizioni della legge n. 81/2017, nel senso che non occorre (più) stipulare un accordo
individuale (patto di lavoro agile) accanto al contratto di lavoro vero e proprio, e gli obblighi
informativi in materia di sicurezza sul lavoro sono semplificati (art. 90 d.l. n. 34/2020).
Lo smart working è diventato quindi qualcosa di profondamente diverso dallo strumento originario
di conciliazione vita-lavoro. Secondo alcuni, esso, oltre ad essere, come detto, la “modalità ordinaria”
di lavoro (almeno nella P.A.), potrebbe addirittura essere considerato un atipico “dispositivo di
prevenzione individuale” (DPI), ai sensi della normativa sulla sicurezza in azienda, contro il rischio
da contagio da coronavirus sul luogo di lavoro.
Da ultimo, vorrei sottolineare che, almeno a mio avviso, buona parte del lavoro agile attivato nel
corso del 2020 non è altro che telelavoro domiciliare: istituto, quest’ultimo, che nella pubblica
amministrazione ha da tempo una sua disciplina specifica, legale e contrattuale (art. 4 legge n.
191/1998 e D.P.R. 8.03.1999, n. 70; Accordo quadro 23.03.2000).
Questa eventualità, come detto, era già delineata nella già citata direttiva della Funzione pubblica del
2017, la quale, significativamente, sottolineava (pag. 13) la necessità di “evitare di ridurre la
flessibilità ad una mera prestazione lavorativa da casa”, cosa che invece è, in buona parte, accaduta.
La differenza – almeno in teoria – tra le due figure sta nella necessaria presenza, nel telelavoro, di
una postazione di lavoro fissa anche al di fuori dei locali dell’amministrazione, vale a dire il domicilio
del lavoratore o un centro-satellite (art. 5 dell’Accordo quadro 23 marzo 2000); mentre il lavoro agile
si svolge, per la parte esterna ai locali del datore, “senza una postazione fissa” (art. 18, comma 1,
legge 81/2017). Inoltre, l’utilizzo di strumenti tecnologici è indispensabile nel telelavoro e (in teoria)
soltanto “possibile” da parte del lavoratore agile, almeno secondo la legge n. 81/2017.
Non vi è dubbio tuttavia, in conclusione, che entrambe le tipologie di lavoro possano essere uno
strumento utile – anche a regime, quando la situazione emergenziale sarà trascorsa – per favorire una
mobilità sostenibile, specialmente nelle aree interne del Paese. Ed anche questo, in fondo, va incontro
alle esigenze di conciliazione tra vita personale e vita lavorativa, promosse dal legislatore.
Su tutti questi aspetti delle nuove modalità di lavoro, ed altri ancora che potranno venire in evidenza,
potrà utilmente svolgere la sua attività di ricerca il futuro dottorando, nell’auspicata ipotesi che il
progetto congiunto venga approvato in sede ministeriale.
Comunque vada, a me pare che la collaborazione tra autonomie locali e istituzioni di ricerca e
formazione sia un’occasione da valorizzare sempre più, dato che la cooperazione tra enti istituzionali
non può che giovare,sia al territorio, sia soprattutto alle giovani generazioni, che sono la nostra risorsa
per un futuro migliore e più sostenibile.