
Invitato dagli amici dell’Università Verde ad una tavola rotonda sui rapporti tra città e montagna, a confermare una mia innata vocazione disobbediente, ho proposto di invertire nel titolo la direzione del movimento che questo suggerisce. Non più “dall’Appennino alla Città” ma piuttosto “dalla Città all’Appennino”, a significare che è la città che deve andare incontro alla sua montagna, come Maometto e non viceversa;. Immagino che ci siano due ragioni fondamentali per le quali questo movimento si può e si deve compiere.
La prima ragione è che, con il suo ingresso nel perimetro della MAB, la città assume il profilo della sostenibilità come il riferimento centrale delle sue politiche urbane. Di questo aspetto potrà parlare sicuramente con maggiore cognizione di causa e con compiuta responsabilità politico amministrativa, l’Assessora Carlotta Bonvicini che mi segue nell’ordine degli interventi.
La seconda ragione, che è quella che più a me interessa, è che questa scelta manifesta un profilo di responsabilità sociale della città verso la sua montagna. Cercherò di argomentare che questa scelta non è – come non lo è peraltro per la responsabilità sociale di impresa, da cui questa mia interpretazione prende il calco – l’esercizio di un sentimento altruistico quanto piuttosto l’espressione di un pensiero lungimirante.
Cercherò di sviluppare brevemente in dieci punti le mie argomentazioni a sostegno di questa visione.
- La attenzione che la città rivolge alla montagna guarda al futuro ma ha un cuore antico. Ce lo ha ricordato il Senatore Fausto Giovanelli, chiamando in causa fatti come la costituzione di IREN con la sua politica per la metanizzazione e la gestione delle acque, o come l’acquisizione dell’Ospedale Sant’Anna da parte del Santa Maria Nuova, ancora negli anni ’60.
- Ci sono però ragioni del tutto nuove perché questa attenzione si eserciti, diverse ma forse non troppo lontane dalle preoccupazioni che guidarono le amministrazioni cittadine nella stagione più fertile del riformismo emiliano. Quella fondamentale sta nel fatto che la questione territoriale ha tornato ad assumere un alta valenza politica.
La “rivolta dei territori che non contano” per dirla con André Rodriguez Pose, ha fatto irruzione nella arena politica delle democrazie occidentali nel corso degli ultimi dieci anni, manifestandosi sistematicamente, nel referendum sulla Brexit come nelle presidenziali americane del 2016 e come ancora nelle elezioni politiche in Francia e in Germania.
Da ultimo, eloquentemente, occupando il centro della scena nelle elezioni regionali di gennaio della Emilia Romagna. Premetto ormai sempre, nelle mie riflessioni sulle fragilità territoriali, una carta che illustra, nella sua brutale essenzialità, i risultati per comune del voto per il Presidente della Giunta regionale che ho ricevuto in dono da Marco Valbruzzi dell’Istituto Cattaneo.
Quel che più mi colpisce in questa rivolta – in Emilia Romagna ma anche altrove – è che essa, per manifestare la defezione “degli sconfitti della globalizzazione”, abbia scelto la strada della “voice” e non quella dell’ “exit”, per dirla con Hirschman.
Dopo decenni nei quali l’opzione “exit”, il “votare con i piedi” come si dice in america, era stata l’opzione prevalente per le aree ai margini dello sviluppo urbano-industriale.
- La Strategia Nazionale per le Aree Interne (SNAI), che vede nel nostro Appennino una delle aree pilota di maggiore rilievo e riconoscimento nel panorama nazionale, rappresenta la risposta – riuscita solo in parte, almeno per il momento – di costruire una risposta efficace e profonda, all’altezza della sfida lanciata da questa protesta.
Ne parlo perché la SNAI mi sembra un riferimento altrettanto ineludibile per la nostra riflessione sulla Montagna di quanto lo sia la MAB, cui quest’incontro è dedicato. D’altra parte la strada di queste due policy si è già incontrata, proficuamente, facendo della MAB una ragione forte, negli equilibri politici regionali, per scegliere l’Appennino Reggiano, come prima area pilota della regione.
Dunque un riferimento necessario per interpretare la vicenda delle politiche per la Montagna che è, al tempo stesso, un fattore della costituency di una nuova identità montanara.
Possibile punto di avvio per una ricostruzione di una consapevolezza di se e di un orgoglio dei montanari, senza incontrare il quale il movimento in provenienza dalla città rischierebbe di incontrare il vuoto e di abbracciare solo una propria idea – metropolitana – di montagna. Cercando un ambiente naturale iscritto piuttosto in un immaginario disneyano che nella crudezza segnata, nella evoluzione dei rapporti sociali, da un contrastato rapporto tra uomo e biosfera.
- la “novità” della SNAI è arrivata in un contesto culturale favorevole. Da qualche tempo le Istituzioni, le Accademie e da ultima anche l’opinione pubblica avevano lanciato un nuovo sguardo ai territori montani, non più solo nostalgico del passato quanto piuttosto curioso di nuovi futuri possibili.
È stato richiamato, sempre da Fausto, il Manifesto di Camaldoli “Per una nuova centralità della Montagna” e al pari io vorrei ricordare il “Progetto Alpe” del FAI o il convegno europeo con cui l’Istituto Nazionale di Urbanistica, ha inaugurato il proprio congresso lo scorso anno a Riva del Garda. O richiamare ancore gli Stati Generali della Montagna che hanno attraversato con una certa continuità l’iniziativa politica di tre Ministri di diverso orientamento come Enrico Costa, Erika Stefani e Francesco Boccia.
Da ultimo, nella occasione della pandemia, anche i grandi giornali sono entrati in scena: con la intervista alla Repubblica di Stefano Boeri che proponeva quello dei borghi rurali e montani come il nuovo orizzonte per l’insediamento di una popolazione metropolitana stordita dalla pandemia. O anche con l’articolo sul Corriere della Sera con cui Dario Di Vico ha parlato per questi nostri territori di uno “sviluppo inatteso”.
Di questo intervento ho potuto seguire la genesi e registrare l’evoluzione della attenzione che, nocciolo dal più duro del pensiero metropolitano che affonda le sue radici nella economia manifatturiera e nelle politiche industriali, si è rivolto alle Aree Interne, per riconoscere con stupore che esiste un altro mondo, diverso da quello metropolitano. Un mondo che coniuga diversamente il ruolo di istituzioni locali fragili ma non disarmate di volontà e di pensiero, di imprese disperse ma non arretrate, di iniziative sussidiarie, più dense qui che altrove.
- Avendo negli occhi questa ripresa di interesse per la Montagna e anche di auto-considerazione della Montagna, non mi sottraggo alla provocazione che ci ha lanciato Valerio Fioravanti nel ricercare un significato “positivo” all’espressione del limite. Limite nel senso di confine, limes, appunto. Concetto difficile da maneggiare in una contemporaneità dove la realtà virtuale delle relazioni sembra cancellare ogni spazio alla consistenza materiale dell’essere. Anche nei fondamenti quantistici della fisica, oramai.
Richiamo per questo una considerazione che, un anno fa, nell’occasione della festa nazionale dei piccoli comuni, ho proposto ad una platea romana con l’immagine di una “realtà aumentata dei Piccoli Comuni”. La rappresentazione traeva ispirazione dal voler collocare i Piccoli Comuni “alla frontiera” e non piuttosto “al margine” della più solida realtà della società contemporanea.
Quella frontiera da un lato evoca il confine in movimento da esplorare per cercare risposte alle proprie inquietudini, vissuto nella stagione americana della vecchia e della “Nuova Frontiera”. Dall’altro per chi, come me, ha una formazione economica, richiama il dibattito “delle due Cambridge” sulla Teoria del Capitale e il ruolo che in questa svolge “la frontiera delle tecniche”, elemento dinamico di evoluzione delle conoscenze e dei processi produttivi che non consente all’economia di applicare la sua intelligenza ai soli problemi di distribuzione del reddito. Frontiera, da riconoscere e, assieme, da varcare, incessantemente.
- Se la Montagna è alla frontiera e non al margine della contemporaneità, essa non può allora chiamarsi fuori dalla sfida più importante che attraversa la nostra società e che proietta la sua ombra – talvolta minacciosa – sulla stagione che tutti individuiamo ormai come quella di una Economia della Conoscenza.
Questa sfida è rappresentata dal divario di straordinaria dimensione che distanzia i livelli formativi superiori della nostra popolazione adulta rispetto a quelli dei Paesi che si collocano al nostro livello di reddito e con noi competono nel mondo globalizzato, comunque questa globalizzazione verrà ridisegnata dai processi di adattamento economico allo stress test della pandemia Covid 19.
Il divario è rafforzato dalla sua proiezione interna. Se la Germania ha un tasso di laureati sulla popolazione adulta che è il doppio del nostro, le nostre città di rango regionale hanno un tasso di laureati che, pure inferiore alla media tedesca, è doppio di quello degli altri territori, siano essi le periferie metropolitane o le aree interne. Bisogna spingersi entro la cerchia idealmente murata delle nostre città storiche per trovare una densità di popolazione laureata paragonabile a quella media tedesca e dunque doppia di quella dei quartieri esterni delle città capoluogo; come a me è capitato di osservare con sistematicità a Reggio Emilia, a Bergamo o a Verona.
Insomma, la disuguaglianza di opportunità tra territori è assai più forte nelle dotazioni di capitale umano di quanto non lo sia in termini di reddito; questo rende assai più grave e pervasivo il digital divide.
- Il capitale umano rappresenta quindi un nuovo fronte di investimento, che è culturale ancora primo che economico, e tanto più lo è per una società che della disistima e della sottovalutazione dei processi formativi ha fatto uno dei suoi tratti abitudinari.
Operando su questo fronte, la montagna potrebbe soffrire di una condizione di minorità (se non di marginalità) rispetto a quelle culture urbane (ma non necessariamente metropolitane) che da sempre ospitano le istituzioni della formazione superiore. Così sarebbe sicuramente se non fossimo alla soglia – e forse già oltre la soglia – di un salto di paradigma nei canoni di interpretazione scientifica della realtà e, soprattutto, nella proiezione tecnica ed economica di questa interpretazione.
Il novecento è stato il secolo della affermazione pervasiva di un modello fisico meccanico della realtà che ascrive le sue radici al XVII secolo di Newton e al XVIII secolo della caldaia a vapore ma che solo con l’affermarsi del fordismo e della centralità dell’automobile è riuscito a raccogliere sotto le proprie insegne le enormi energie che il modo di produzione capitalistico ha saputo suscitare.
Abbiamo letto il compiersi del fordismo, messo in crisi dalla sua insostenibilità sociale, nella evoluzione di una produzione di fabbrica ritornata alla scala della piccola serie e della produzione personalizzata, dispersa dalla disintegrazione verticale delle sue unità produttive inglobate da supply chains globali sempre più articolate e complesse, scossa alle fondamenta nella rivoluzione digitate che trasforma organizzazioni e modelli di business.
- In alcuni luoghi – e l’Emilia è sicuramente tra questi – abbiamo saputo ritrarre dal post fordismo di una meccanica intelligente le ragioni di un grande successo internazionale delle nostre economie, certificato dai record delle esportazioni ma anche dalla affermazione di quelle che abbiamo prontamente ribattezzato multinazionali tascabili. Un successo anche questo inatteso, quanto meno nelle sue proporzioni. Dobbiamo però chiederci se il cambio di paradigma della conoscenza tecnico scientifica e della economia che ne organizza gli esiti, non minacci anche questi nostri più solidi risultati.
Se è vero (come sostiene il visionario economista francese Jaques Attalì) che tra dieci anni il 70% del PIL dei Paesi più avanzati (sempre che noi si sappia rimanere tra i vagoni di testa) sarà prodotto in quella “Economia della vita” che tiene insieme alimentazione, benessere, salute, quale sarà il destino della Motor Valley emiliana? Un territorio il cui primato continentale è messo in discussione anche dalla transizione dal motore endotermico a quello elettrico, con la caduta verticale di complessità, e dunque delle dimensioni della componentistica necessaria, che questa transizione comporta.
- Un panorama industriale destinato ad essere profondamente modificato come ci ha mostrato la crisi dell’auto ma come forse solo lo shock della pandemia ci consente di immaginare, se non ancora di intravedere.
Come si collocano in questo panorama i territori rimasti al margine della crescita urbano industriale? Potranno questi territori giocare nuove carte vincenti? Dobbiamo interrogare per questo il loro ospitare riserve di naturalità di straordinaria estensione e diversità, almeno a paragone della semplificazione e della marginalità che la incombente presenza della natura mostra nelle aree urbane della Via Emilia e della media e bassa pianura di più recente industrializzazione. Insieme dobbiamo indagare la loro capacità di rappresentare, emblematicamente, lo spazio concettuale riconosciuto alle più antiche biotecnologie di trasformazione agro alimentare, quelle del parmigiano reggiano.
Queste doti sapranno costituire un ambiente più interessante per una nuova e diversa generazione di protagonisti delle bio-scienze, delle bio-tecnologie e delle bio-economie?
- Se così sarà, l’attenzione rivolta dalla Città a luoghi che potrebbero avere un loro valore distintivo e addirittura proporre un vantaggio competitivo nella nuova organizzazione della divisione internazionale del lavoro che seguirà l’affermarsi del paradigma organico biologico, non si sarà allora dimostrata essere davvero un investimento lungimirante?
Giampiero Lupatelli